La pecora nera

Rimossa in un angolo la gioia e la rabbia dell'incontro con Ari riprendo a macinare passi e a timbrare il terreno con scarpe ormai lisce e un po' lerce.

Mi fermo un momento a parlare con il signore che avevo conosciuto domenica, quello che si era fatto intervistare da "Gli Invisibili". Lo incontro all'inizio del primo binario, seduto accanto alle cabine telefoniche, dove passa la maggior parte della giornata, insieme ai suoi compagni di bevute. Stamattina però è lì da solo. Rimanendo molto sulle sue mi dice che secondo lui faccio male a fare troppe domande, riferendosi all'episodio di domenica con Biagio. A sapere tutto ci pensa Dio, tu pensa per te. Specialmente in strada, la gente non si fida di chi ha la lingua lunga, ognuno resta nel suo e di lì non si scosta.

C'è un profondo egoismo oltre che una profonda sofferenza in queste persone. La stessa scelta di rompere con il mondo, che poi non è mai una libera scelta, ma scelta forzata di alcuni, quando il mondo ha già rotto con loro, è sintomatica. La solitudine e l'isolamento fanno il resto, generando una vera e propria paranoia, paura e desiderio dell'altro, paura e desiderio di sé. Le spine del cuore si riproducono anche all'esterno dando forma ad un riccio. Guai a chi mi tocca! Anche la bruttezza è sintomo di questo. Penso a quello stato di abbandono e completa trascuratezza di sé che alcuni in strada raggiungono. Il fatto cioè di non lavarsi, puzzare di fritto, di piscio e di smog, consumare i vestiti e tenere unite le scarpe con pezzi di nastro adesivo. Tutto questo concorre ad isolarsi dal mondo, il che vuol dire in un certo qual senso proteggersi da un contatto che si teme e si vuole allo stesso momento. É come se sotto quella crosta di sporco si muovesse un nuovo piccolo mondo, fatto di ricordi, pensieri detti ad alta voce, allucinazioni talvolta.

Una conseguenza che spesso accompagna (quando non ne è essa stessa causa) la totale perdita di punti di riferimento e certezze in una vita appesa a un carrello e a un cartone, è quella drammatica del disturbo mentale.
La pazzia non è un mondo tanto lontano dalla normalità. La mente è costantemente tirata, come se fosse di gomma, in diverse direzioni a seconda delle innumerevoli pulsioni, paure, desideri e bisogni che l'animano. Quando alcuni di questi bisogni, desideri, paure e pulsioni prendono un peso eccessivo sul dinamico equilibrio di forze che la faceva oscillare con una certa regolarità, succede che si deforma, si piega da un lato, e ci pare assolutamente altra dalla norma. La norma. Norma significa non tanto equilibrio e armonia quanto piuttosto un modus vivendi socialmente accettato, in base a cosa e a chi poi dipende.

Cosa causa la deformazione della mente? La perdita del suo magico e sottile equilibrio? Sono fattori o processi? Sono difetti meccanici come di macchine umane o difficili strade smarrite nei boschi da cui non si riesce a tornare?

Forse diagnosticare la mente con le categorie meccaniche della malattia ci dà sicurezza. Intanto ci tranquillizza sulla paura di impazzire, insita in ognuno di noi. Poi dà forza al valore sociale della normalità, condannando la devianza non come un disagio ma come una malattia. Ora, se è vero che parlare di disagio significa accettare che esso sia generato in una qualche misura dall'ambiente, ovvero dalla normalità di cui sopra, allora è anche vero che questa viene chiamata a processo al tavolo degli imputati.
Al contrario parlare di malattia, significa negare la centralità dei processi e tornare ad un approccio più esoterico che scientifico, per cui la causa di tutto sta forse nei geni del DNA o tutt'al più in un momentaneo scompenso della taluna o tal'altra sostanza chimica nel sistema nervoso. Magia e farmacia. In ogni caso il malato come solo responsabile della sua malattia. Diciamo una sorta di difetto di produzione, leggasi l'ennesimo senso di colpa, inadeguatezza e fallimento per una persona già resa fragile e spossata dalla vita.

In realtà non c'è tutta questa distanza tra la pazzia e la norma, come non ve n'è tra il mondo della strada e quello della città. In entrambi i livelli della società si ricreano simili regole sociali ed i confini finiscono per liquefarsi. Così, nella mia particolare posizione sulla cerniera di questo margine finisco per osservare, più che gli esclusi, la gente, senza categorie né pacchetti pre-confezionati. Vivo per strada e mi affaccio su di essa come a un balcone.

[Tratto da "Roma senza fissa dimora", 21 dicembre 2004]

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