Tutte le strade portano a Roma

La schiena mi scricchiola mentre cerco di seguire con gli occhi le righe che vado scrivendo. Tuttavia la stanchezza è in ritardo sul mio mattino e così con un misto di entusiasmo, fiducia e curiosità, tanta, inizio a segnare la traccia di questo mio viaggio negli scantinati di Roma. Aro le strade e ne incido il racconto su fazzoletti di carta. Racconto il presente, con lo stile della memoria. Raccolgo foglie cadute d'autunno, cercando nei grigi di questo rigido inverno il tepore di un inizio di primavera, il calore e il colore di rossi frutti appesi agli aranci che spuntano qua e là nelle strette strade del centro. Ascolto.

Il viaggio inizia bene. Arrivo a Roma ieri sera, verso le undici, su un treno espresso partito da Firenze insieme a Giulia, una ragazza conosciuta a Weimar, solo quindici giorni fa. Provo a spiegarle sul treno cosa sto andando a fare nella capitale, accompagnato solo da un leggero sacco a pelo ed un piccolo zaino nero. Tuttavia sono sicuro che non mi prende sul serio mentre le parlo, poco importa. Passiamo la serata insieme, io, lei e il suo ragazzo, Marcus, sorseggiando un tè alla menta in una locanda di Trastevere, cullati dall'andirivieni degli argomenti più vari nei nostri discorsi. Verso le due ci separiamo. Solo, stanotte, come in mezzo ad un mare, mi incammino senza meta né orario, finisco per trovarmi su via Nazionale. Fari abbaglianti che corrono, luci al neon di locali e vetrine, ponteggi color alluminio, spensierati passi di chi vive stanotte. Corpi, qua e là, ammucchiati sotto coperte marrone di lana, di chi stanotte, come ieri e il giorno prima, cerca di chiudere un occhio dondolandosi sul rumore del traffico. Punto dal freddo, decido di andare a Termini e di passare là la mia prima notte all'aria aperta.

La stazione di notte si spegne. Da mezzanotte e mezza alle quattro e mezza si chiudono i cancelli, i treni si fermano lungo i binari e cala il sipario. I clienti e gli inquilini della stazione sono invitati a lasciare i locali per consentire le pulizie. Nel frattempo una squadra di agenti sorveglia la galleria di negozi, edicole, librerie e supermercati che fa di Termini un piccolo grande centro commerciale. Verso le tre non c'è gran movimento alla stazione e fuori del suo ingresso principale il caos si allenta un po'. Continua a correre il traffico, ma con meno insistenza. Alcuni bus notturni fanno la loro comparsa qua e là. I rami dei pini di Piazzale dei Cinquecento sono piegati sotto il peso di migliaia e migliaia di storni neri che appollaiati uno accanto all'altro aspettano che si faccia mattino. Davanti alle vetrate dell'ingresso un gruppetto di una ventina di persone, sparse qua e là, secondo un ordine assegnato di posti dormono a terra. Cercano tepore, rannicchiati sopra un cartone o seduti su una carrozzina. I più organizzati hanno un sacco a pelo, o almeno una coperta. Gli altri solo una scorta del peggior Tavernello per dimenticare anche il freddo, o forse solo per vedere se davvero è così facile morire.Non lontano dagli inquilini di quei marciapiedi si distinguono sfortunati viaggiatori che, colti impreparati dalla chiusura della sala d'attesa e dell'intera stazione, imprecando aspettano le cinque e trenta, per almeno potersi infilare nel bar Moka, che a quell'ora apre, e scaldarsi la notte con un doppio caffé.

Mentre mi guardo in giro per decidere il da farsi, una mano sulla spalla mi chiede se ho da accendere. Rispondo di no. Fa niente, l'accendino ce l'ha, anzi, la voglio una sigaretta? No, grazie, non fumo. Si mette in fila un parlare un po' ambiguo, ma non così tanto… Roberto è sulla quarantina, abita non lontano da qui, ha un negozio di abbigliamento. La notte, quando la solitudine si fa sentire, viene a fare un giro alla stazione. A Roberto piacciono i giovani, e piacciono le nuove esperienze. La stazione è un porto dove sbarca un po' di tutto e ogni sera c'è qualcuno che perde un treno. Così, offrendo un'improbabile ospitalità, cerca di riempire di fugaci passioni notti di noia. Comunque dopo una mezz'oretta abbondante di confronti tra punti di vista, tendenze sessuali e gusti estetici, ci si saluta e inizio seriamente a cercare un angolo dove cucirmi uno spazio per coricarmi, stanco. Scelgo una vetrata laterale della facciata della stazione. Un luogo illuminato, non lontano da altri co-inquilini e da chi a quell'ora lavora per spazzare e ripulire il piazzale. Mi sembra un posto tranquillo per la prima notte. Saranno le tre e mezza. Imbacuccato dentro a un sacco a pelo, lo zaino come cuscino. Mi ci vuole un po' prima di prendere sonno, è come se la mente continuasse a camminare per conto suo lungo i passi del giorno. Dormo.

A un tratto una voce mi sveglia, quando a me pare di essermi appena addormentato. Via, capo! Alzati! Via! Ci metto un po' a sgranare gli occhi e poi a capire che caspita ci sto facendo in mezzo alla strada. É ancora notte. La stazione ha appena riaperto i battenti e il personale delle pulizie deve lavare gli angoli dove stiamo accovacciati. Mi alzo, chiudo il sacco e me ne vado all'interno, dove subito mi risistemo per terra, lungo il muro che corre vicino al primo binario. Stessa storia, dopo circa un quarto d'ora un poliziotto diligente mi scrolla la spalla. La stazione è già aperta. In piedi! Qua non si può mica dormire! Mi alzo di nuovo. Faccio fatica, mentre chiudo il mio sacco. Avverto un senso quasi di paura. Paura di fare passi a casaccio, più lunghi della gamba, paura di quello che sono venuto a fare e del fatto che sono assolutamente disorientato in un mondo a me sconosciuto ed ostile, munito solo di fiducia nell'uomo e di una buona dose di curiosità. Appena sistemato il sacco sento come il bisogno di nascondermi tra la folla, anonimo, di non fermarmi, di continuare a camminare avanti e indietro, nel pullulare di genti, zaini a tracolla, borse, valigie e carrelli. Subito mi accorgo che non è affatto difficile essere trasparente agli sguardi dei viaggiatori di passaggio in una stazione. Ognuno, preso com'è dal suo viaggio, non fa caso a ciò che gli è intorno, cerca solo l'orario e il binario, al massimo il bar, il resto diviene un tempo morto in mezzo a un non-luogo, dove l'interazione, un po' casuale e un po' voluta con gli altri inermi viaggiatori è cancellata da un presente già proiettato in avanti. Il viaggio del pendolare è una fastidiosa attesa dell'arrivo, un lungo sciupio del proprio tempo prezioso. Uomini e donne passeggiano avanti e indietro guardandosi i piedi, in attesa che un altoparlante confermi il binario.In mezzo a tutti quei viaggiatori incolori ci sono molte persone che lungo i binari ci abitano, per quanto strano possa suonare. Inizio a riconoscerne alcuni. Per adesso non parlo con nessuno, magari stasera. Prima vorrei meglio orientarmi in questa città a me straniera, anche per meglio capire. L'ascolto non ha fretta e saprò cercare.

Cercare che cosa? Cercare nelle pagine private di chi sulla strada è naufragato un possibile racconto per meglio capire ed affrontare le correnti e le alte maree che agitano le acque delle grandi città, sbattendo sugli scogli della riva le barche di chi ha smarrito il suo nord, di chi ha rotto il timone, di chi ha strappato le vele, di chi ha gettato la spugna, e di chi la sua barca non l'ha mai comandata.In questo grande porto che è la strada vado in cerca delle tinte di un quadro. Non tanto un quadro più esauriente, anche perché non lo sarebbe abbastanza, quanto semmai più umano, più attento ai dettagli, complesso, privo di certezze e luoghi comuni, ricco di storie e di volti.

[ Tratto da "Roma senza fissa dimora", 18 dicembre 2004]

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