Una semplice frase di Buber

Ricordo ancora mio nonno Renato quando teneva a sottolineare l'etimologia delle parole e rivendicava con orgoglio di essere uomo "curioso", ovvero, dal latino, un uomo pieno di perché. Come lui, cercando risposte, o forse solo cercando domande, perché le risposte sono già scritte, continuo a vagare per Roma. Finora lo faccio in silenzio, da solo. Cammino e mi accompagno scrutando la gente, le strade, le piccole cose. Trovo, senza cercare. Non ho ancora parlato con nessun abitante di quel paese umano che è la città degli esclusi. Avverto come una barriera che non sono sicuro di voler superare. Avverto come l'ostilità di un mondo a me estraneo che non mi ha chiamato, ma che io vengo a disturbare, ho due o tre cosucce da chiedergli.

Passare un'intera giornata in giro per Roma, uno zaino alle spalle e due ore di sonno ier notte, è dura. É dura la solitudine. Non tanto il fatto di stare da soli, quanto piuttosto avvertire la propria assenza. Fantasmi. Quando non hai nessun posto dove andare, quando non hai nessuno da cercare e nessuno che ti cerchi, di fatto non esisti. Ecco il senso più profondo di una semplice frase di Buber, che scrive: "Non è bene che l'uomo sia solo". L'estrema solitudine. C'è di più. C'è il fatto che sbattuti in mezzo a una strada, continuamente di passaggio su un suolo pubblico, di altri e di nessuno, si è privati dei propri spazi, dei propri tempi, dei propri ritmi, delle proprie abitudini. In una parola della memoria di sé.
Tutto ciò è disumanizzante. D'un tratto non c'è più niente che ti ricordi chi sei. Penso alla disposizione dei mobili nella propria stanza, penso al profumo della propria cucina, al colore delle pentole, a un album fotografico, a quel paio di scarpe preferite, l'odore del caffé la mattina, la musica, i quadri alle pareti, i vicini di casa. Ognuno di noi ha una storia e compie quotidianamente un'opera di documentazione autobiografica, accumulando oggetti che di quella storia gli parlano e gli ricordano da dove è venuto e dove se ne voleva andare a parare. In strada tutto questo va perso. Sono perse quella stabilità e quella sicurezza che ti danno il ritmo delle abitudini e lo scandirsi dei tempi. Tuttavia la strada non è nemmeno precaria. Non si avverte angoscia pensando al domani e a tutte le sue incertezze, semplicemente perché come non c'è passato non c'è neanche futuro. Il tempo si restringe all'adesso. Anche quando le giornate sembrano interminabili perché non c'è nulla da fare e nessuno da andare a cercare, non si fanno progetti per il futuro. La strada decostruisce la linearità del tempo. Il tempo non scorre più, il tempo è ora, è adesso, è immediato, come i bisogni. E non è in fondo anche questa una forma di autodifesa? Ogni volta che pensi al passato, per quanto nefasto sia stato, come pure ogni volta che speri in un futuro più roseo, finisci per batter la testa contro le pareti di una fossa che ti sei scavato all'intorno e dalla quale non riesci ad uscire. Meglio allora non alzare lo sguardo e cullarsi nel proprio male amato equilibrio. E poi c'è il rumore, assordante, della stanchezza.

[ Tratto da "Roma senza fissa dimora", 19 dicembre 2004]

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