Una doccia fredda

Stanco, seduto di fronte alla sera, raccolgo dall'oggi piacevoli semi di grano, lettere nere d'inchiostro, piacevoli appunti, spunti. Che buffo… soltanto poche ore fa avrei aperto il pezzo in un modo del tutto diverso, quanto meno sarei partito col dire che ho finito anche l'ultimo centesimo e che mi è impossibile prelevare col bancomat…e invece... eccomi qua.

Ieri notte cambio d'albergo… Camminando a piedi lungo via Marsala, la via che fiancheggia la stazione Termini lungo il suo lato sinistro, in direzione S. Lorenzo, scelgo il portico delle Poste Italiane. Il lato divertente della strada è anche questo: puoi fare un trasloco ogni giorno, basta scegliere un metro quadrato di suolo pubblico un po' riparato. Il lato meno divertente è che proprio perché suolo pubblico quel metro non potrà mai esserti "casa", tutt'al più brandina per un pugno di ore la notte.
Davanti l'ingresso delle Poste vengono a dormire venti, trenta persone ogni sera, ormai là sono di casa. Il posto è ottimo per riposare le ossa. Sul pavimento vi è una griglia di ferro, che è meno fredda ed umida di un pavimento di marmo o cemento. Sopra la testa una larga tettoia grigia protegge da guazza, pioggerella e acquazzoni. Una scalinata bianca sporca di mozziconi e cartoni stracciati dall'acqua che piove scende giù verso la strada, illuminata tutta la notte dalle lampade arancione dei lampioni. Il traffico non conosce riposo nemmeno nelle ore più tarde. Il posto inoltre è conosciuto dai volontari che, organizzati in diverse associazioni, ogni sera verso le nove passano a portare panini, bevande e biscotti.
A dormirci sono tutti uomini. C'è un gruppetto di maghrebini, una decina di africani, Africa occidentale, e altrettanti polacchi. Il posto sembra da subito tranquillo, così, raccolti i cartoni vado a sistemarmi in una striscia rimasta libera nel mezzo di questo tappeto di uomini.
Dopo diverse ore di sonno altalenante tra il sogno e la veglia, sul ritmo del traffico e dei suoi rumori, apro gli occhi su un cielo grigio di nubi. Saranno le 07:00, il sole è nascosto. Buona parte degli altri se ne sono già andati. Alcuni stanno piegando le loro coperte marrone, per riporle nei sacchi neri di plastica che poi andranno a nascondere nei magazzini delle ferrovie, che durante il giorno sono accessibili e vengono usati come deposito abusivo di tutto quello che uno non può portarsi in giro per un'intera giornata, nella speranza di ritrovarcelo poi al ritorno, la sera. Altro consistente problema della strada: il guardaroba!

Svegliarsi all'inizio del giorno in mezzo a una strada. Mi sto abituando. Non c'è bisogno di sveglie. La natura chiama. Intanto per evitare che i piedi congelino, e in secondo luogo perché il freddo tagliente ha effetti altamente diuretici… Anche la pipì per strada diventa un problema, non trovandosi bagni se non a pagamento. Non è un caso se intorno alla stazione ogni angolo riparato da sguardi indiscreti venga eletto a pubblico pisciatoio, nella migliore delle ipotesi…

Di primo mattino, verso le 9:00 mi presento al Centro d'Ascolto Italiani della Caritas, via Marsala, per capire come ottenere un buono per le mense dei poveri. Dopo un'attesa di una mezz'ora seduto all'inizio di un corridoio color parmigiano sono ricevuto da una giovane assistente sociale, di nome Fabiola. Provo a spiegarle in poche parole chi sono, che faccio e perché ho voglia di gettare uno sguardo curioso su questa città. Dopo una iniziale perplessità, da dietro le lenti rotonde dei suoi piccoli occhiali poggiati su ciocche di capelli castani, inizia ad espormi una serie di critiche, quasi a giustificare il suo operato nei miei confronti. Non posso che darle ragione, perché ragione ce l'ha. Insomma ha ragione nel dire che la mia scelta è del tutto personale e niente affatto necessaria né tanto meno sufficiente alla comprensione della complessità dei mondi della strada. Ha ragione anche a dire che ci sono altri modi per stare vicini alle persone, e il principale è l'ascolto, che non presuppongono una vicinanza fisica totale. Ha ragione infine a dire che comunque io non potrò mai comprendere fino in fondo ciò che si prova ad essere sbattuti su una strada da un bastardo destino, perché non è questo il mio caso, non è il mio vissuto. La mia è solo una recita, so che tra qualche giorno tornerò a tutte le mie sicurezze e che questa non rimarrà che un'avventura, un pretesto. Ha ragione. É proprio da queste basi che sono partito pochi giorni fa. Nemmeno io credo ai giochi di simulazione, tanto più quando si gioca a simulare altrui tragedie e drammatiche storie. Ma non è questo il mio intento. Mai mi sono considerato la cavia di me stesso, né questo vuol essere una sorta di esperimento sociale. Semplicemente un'occasione di incontro, silenzio, ed ascolto, un'osservazione condotta da un punto di vista privilegiato, quello dell'immersione, della vicinanza, della partecipazione. Osservazione della città degli esclusi e insieme della città che li esclude, perché in realtà sono una sola e stessa città. Ecco perché ho scelto di partire. Ecco perché viaggio, spinto dalla curiosità umana di conoscere l'uomo e dal desiderio professionale di conoscere meglio che cosa succede qua sotto, negli scantinati sociali di chi ha smarrito una stella e rimane a guardare, come seduto su un argine, scorrere un fiume di gente che corre.
Alla fine deve avere capito, almeno così io mi dico. Infatti mi ha dato due buoni, uno per il pranzo ed uno per la cena, validi tre giorni in due mense diverse. Di più non poteva, considerando le priorità da dare a chi in strada non c'è per fare un viaggio e nemmeno per studio, ma che ha bisogno di mangiare lo stesso, anzi a maggiore ragione.

Dopo pranzo apprendo il fattaccio. Sono all'ufficio postale della stazione. Coda di un'ora in una tripla fila a forma di serpentina, strisce blu e paletti di nero, per poi sentirmi dire allo sportello che non avendo il bancomat non è possibile prelevare in nessun modo, non importa se si è titolari di conto corrente postale. Chiedo di scomodare la direttrice perché mi trovo senza un centesimo ed ho immediato bisogno di soldi. Niente da fare. Con i toni freddi e asciutti della burocrazia, mi si consiglia di farmi inviare un assegno od un vaglia. Me ne vado, appena capisco che non c'è modo di riempirmi di un poco le tasche, quel tanto che basta per stare sicuri, nel caso ci fosse un qualsiasi problema. Vai te a sapere. Ero partito senza la tessera del bancomat e con poca moneta, confidando che così avrei corso meno rischi nel caso di furti o aggressioni, visto che la strada non è un luogo tanto sicuro. Adesso questa notizia mi cade addosso come un colpo alla nuca. Seduto per terra con gli occhi puntati oltre i finestrini sfuocati della fila di auto e motori che riempiono la strada, mi chiedo se non abbia tirato troppo la corda. Mi chiedo se non rimarrò bruciato giocando col fuoco. É come se mi rendessi conto d'un tratto che allora sì, faccio sul serio, che non sto sognando. Non ho nemmeno i soldi per chiamare a casa o per leggere la posta in un internet point. Se nel mezzo della giornata muoio dal freddo non posso entrare in un bar a bere qualcosa, se ho bisogno di andare al bagno devo farlo di nascosto in qualche locale. Di fare la questua non se ne parla, non mi va proprio. Così, girando le mani nelle acque rosse e verdi della rabbia e dell'abbattimento, decido che per ora è meglio non pensarci, non concentrarmi su questa cosa e semplicemente continuare a camminare, magari con rinnovato entusiasmo.

Così, non poco demoralizzato, me ne vado a viale Castrense cinquanta, zona S. Giovanni. Il centro docce si trova in una stradina adiacente le vecchie mura romane. Alcune macchine parcheggiate a lisca di pesce, cassonetti verdi e bidoni della Caritas bianchi per la raccolta degli abiti usati, per terra vestiti gettati qua e là nella sporcizia, ogni tanto giardini, alberi verdi, cornacchie e piccioni. Pochi gradini e si accede ad una porta a vetri di legno. Su quei grigi gradini si fa la fila ogni giorno, al mattino e al pomeriggio, per guadagnare un bigliettino numerato che garantisca di rientrare tra i pochi privilegiati che quel giorno si potranno lavare. Sono fortunato, così al mio arrivo non trovo molta gente, sono il primo di quelli senza il numero, nel giro di tre ore dovrei riuscire a lavarmi. Nel frattempo non posso allontanarmi per non perdere il posto. Aspetto. C'è una cagnetta nera che scodinzolando mi gira lì attorno. Ci gioco. É il cane di Attila e Roisin, in Italia da poco, partiti da Budapest in un viaggio di sola andata, fuga ed erranza, fatto di musica, fantasia, un po' d'amore e una tenda. Vivono in un parco nella periferia di Roma. Lui fa il musicista e raccoglie monete suonando per strada con la chitarra. Canta, sia canzoni del proprio repertorio, che cover. Lei è un'insegnante di tecniche di meditazione orientali. Attila sembra caparbio, contraddittorio, istintivo, artista incompreso, giovanissimo. Roisin lo è un po' meno negli anni, ma nei suoi occhi d'azzurro c'è un sorriso di pace. Serena e fragile insieme.

Finalmente la doccia, erano giorni. In un bagnetto minuscolo con due cabine, senza le porte. Per asciugarsi alcuni fogli di scottex. Ho chiesto degli asciugamani ma pare che costi troppo fornire biancheria pulita per tutti.

Alla fine, assieme ai nuovi amici ungheresi, andiamo a mangiare alla mensa Caritas, di via Marsala, passando prima un quarto d'ora in un internet point, offrono loro.

Davanti al cancello della mensa si avverte da subito un clima di tensione. L'intera area è recintata da arrugginite sbarre di ferro, un po' all'ombra. Due ragazzi alla porta controllano che entri solo chi ha il ticket. Servizio di sicurezza. Siamo passati solo da poco, arriva un uomo ubriaco. Avrà sì e no quarant'anni. Fisico asciutto, bevuto. Inizia ad inveire contro l'operatore che non lo lascia avanzare, non ha il buono per la mensa, deve star fuori. Quello gli inizia a gridare e a sputare. Volano minacce e parole, le mani tagliano l'aria. Fin tanto che il tipo si avventa sul guardiano il quale prontamente lo scansa e con un destro lo respinge al mittente. Dopo poco se ne va. Forse ha capito che stasera non c'è niente da fare. Forse per primo anche lui sa che quello che brucia non sono le offese, ma è tutto l'insieme, è tutta la vita, chiamala sfiga. La rabbia ha bisogno di canali di sfogo, ha bisogno di rompere qualcosa, di scaricarsi. Quando non riesce a convertirsi in frenetica costruzione di senso, i suoi cristalli neri diventano azzurrognoli liquidi amari, fiele che penetra nelle profondità dello spirito fino ad odiare il mondo perché se ne è andato, fino ad odiare se stessi perché non s'è fatto niente per evitare che potesse accadere e ormai, è troppo tardi.

[ Tratto da "Roma senza fissa dimora", 21 dicembre 2004]

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