Gigi, ragazzo di vita

Salutati Attila e Roisi, mentre Angy ancora si guarda intorno spaurita, me ne vado verso la stazione, a piedi, due passi per sbollire sotto questa pioggerella fine e incessante. Giunto a Termini, finisco per ambulare lungo il primo binario, dove incontro di nuovo Carmelo. Insieme a lui ci sono Luigi e Giancarlo, romano de Roma il primo, fiorentino l'altro. Seduti sopra a una di quelle fredde panchine metalliche, insieme a Gigi passiamo un'oretta buona a parlare. Si parte dal mio naso è giù giù a spaziare con ampie bracciate lungo i temi della vita. Gli racconto subito chi sono e perché mi trovo in mezzo alla strada, lui prova a fare altrettanto. C'è finalmente un bel clima, aperto, di discussione e confronto.

Gigi mi pare fin dall'inizio un personaggio teatrale, scritto da un ottimo autore, una maschera. Sulla cinquantina, alto, fisico asciutto, capelli grigi e sopracciglioni neri, accompagna con ampi gesti delle mani rugose le sue battute sferzanti. Irriverente passa il tempo a prendere in giro la vita, dai bassifondi di una strada che in qualche modo lo ama, con la dignità di un uomo randagio pronuncia sentenze e bestemmie, condite da qualche bicchiere di vino scadente. Senza puzze sotto il naso si diverte a guardare la gente e a rompere i muri del buon costume e del chiedo scusa, sa mica. La sua è un maschera grottesca, la sua vita la satira geniale e istintiva di una società alla deriva, doppia e costruita. Così questo personaggio carnevalesco dalle taglienti battute recitate a alta voce, va in scena ogni sera dal suo palcoscenico, ogni tratto del primo binario, per il gusto del suo pubblico, viaggiatori di scalo a Termini, che senza aver comprato il biglietto si trovano essi stessi a misurarsi col palco, le battute, gli inganni e le beffe di questa vita meschina.

Gigi ce l'ha a morte con gli stranieri che vivono nelle sue stesse condizioni. Quasi una voglia viscerale di gridare all'untore, di dare un volto ai colpevoli di un qualche cosa che non ha funzionato e per cui lui e tanti altri si trovano oggi a dire: meglio la strada. Mi colpisce la totale incapacità in alcuni di elaborare un minimo il quadro generale, di avere una visione più larga del fenomeno, nella sua dimensione sociale, economica e politica. Eh sì che per strada ci sono anche persone molto istruite. Tuttavia sono solo una cerchia ristretta. Per gli altri il tutto si riduce ad una misera guerra tra i poveri. I confini identitari sono i più facili da tracciare.

Noi semo italiani e lo stato ce deve da' de ppiù! Quelli so capaci solo de rubbatte e nun vojono da lavora'! Anvedi oh! Ma che ce fano in Italia? Non hano che da tornassene a casa, 'sti stronzi! Ce rubbano il lavoro e ce vengano pure a frega' li sordi a noantri!

Stereotipi, non dissimili da quelli che la maggior parte della gente bene nutre nei confronti dei poveri e del disagio. Ma quali vittime? Sono delinquenti, sono vagabondi, sono malati. Lo hanno scelto loro dopotutto no?
Questo della libera scelta è un facile luogo comune difficile da abbattere, oltre che comodo da pensare. Comodo sì, perché scarica ogni responsabilità del disagio sulla persona in difficoltà, promuovendo a pieni voti il sistema sociale che invece è parte in causa nella generazione, complessa, di quello stesso disagio. Nessuno nasce difettoso, non esiste il gene della miseria, della droga, dell'alcolismo, non vi è determinismo in questi campi. Ma vi è la complessità delle storie, delle biografie delle persone, che portano addosso le firme dei processi che li hanno resi ciò che essi oggi sono. In questi processi gioca un ruolo fondamentale la persona stessa, che non può certo delegare la responsabilità di sé ad altri. Ma giocano un ruolo altrettanto importante figure come la famiglia, gli amici, le compagne/i, i figli, i lutti, il sistema sociale, la cultura di provenienza, i servizi di assistenza, il mercato del lavoro. Nessuno sceglie la strada. Forse è più corretto dire che la strada sceglie i suoi abitanti, presentando un giorno i conti all'oste, a volte un po' a casaccio, senza prima bussare alla porta.

Sono sempre lunghe le storie e i problemi che portano a perdere tutti e tutto, non si tratta di aver perso un lavoro dall'oggi al domani. Spesso anzi il lavoro è l'ultima delle cose che uno perde, dopo i lutti, dopo l'equilibrio mentale, dopo le dipendenze da sostanze, dopo tante ferite del cuore. La strada un bel giorno, dopo tante minacce, ti viene a prendere in casa e ti sbatte là fuori, su un marciapiede, all'umido, solo. Non ci sono istruzioni per l'uso, c'è solo una notte, la prima, che ognuno ricorda come la più dura, quella in cui gli occhi si scavano dalla paura e dal freddo, e il tempo sembra giocare a non passare. Poi si contano i giorni, le settimane, i mesi, gli anni talvolta. E come a ogni cosa si fa l'abitudine. L'uomo ha un'incredibile capacità di adattamento e si adatta anche alla strada. Per cui si trova a volte chi, come Gigi, dice fiero che in strada ce sta bene e che nun la cambierebbe proprio pe' ggnente.

Sto come un papa, nun lavoro, nun c'ho impegni né stress, me faccio a colletta ogni ggiorno, sto con l'amici, magno e nun me rompe l'anima nessuno. Che voi de ppiù da la vita. Io faccio na vita vera, mica quelli llà. Perché la vita de strada è dura e te 'nsegna un sacco de cose che na vita normale nun te le insegnerà mmai. Io nun c'ho paura de ggnente ormai. Ne ho viste tarmente tante che me sento cresciuto, maturato, come persona capisci. A strada è a migliore maestra de vita. Te 'nsegna tutto quello che sui libbri nun ce sta. Te 'nsegna a trovatte da be' e da magnà, te insegna a dormi' a l'aperto, d'inverno, cor ghiaccio e d'estate co' ll'afa. Te 'nsegna a difendete da ssolo e a nun conta' su nessuno. Te 'nsegna a tene' sempre n'occhio aperto, anche quando dormi, perché nun se sa mai. Te 'nsegna a fatte rispettà e te 'nsegna er valore de le cose, de l'amicizia per esempio. Perché in strada vedi anche tanta, tantissima sofferenza. E quando te fermi durante la ggiornata che nun sai che ffa', ce pensi, e te sembra de 'mparà quarcosa. Sull'antri, su de te, e su le cose 'mportanti d'a vita tua.
No io nun ce tornerei indietro, perché me ne sto bbene qua. Ormai c'ho l'amici e nun me va proprio de torna a lavorà a famme un culo così per cosa? Per rischià de ritrovamme alla stazione tra n'anno.
A Gabbrié, io c'ho quasi cinquant'anni, nun me li posso prenne certi rischi.


Spavaldo e irriverente spara a zero sulle vite precarie e alienate dei più che inseguono un sogno che non gli appartiene vendendo per un pugno di mosche il loro tempo al mercato del lavoro. Allo stesso tempo però si fa meno spavaldo se si inizia a parlare di altro, ad esempio della famiglia che non ha e che avrebbe potuto avere, all'aiuto che non ha ricevuto quando ancora sarebbe stato possibile vivere una vita degna in una casa che aveva e che ha perso. Per un attimo allora sì mi dà ragione. É con me nel dire che l'attuale forma di economia capitalista ha imposto la mercificazione dell'uomo, al punto che nemmeno si parla più di lavoratori e lavoratrici ma di risorse umane. Ecco, dal momento che ognuno di noi diventa risorsa, merce, la sua vita lavorativa risponde unicamente ai criteri di convenienza, competitività, prezzi, rischi e assicurazioni dell'impresa. E quel che è peggio è che lo stesso discorso si estende alla sua vita sociale, dal momento che lo Stato stesso si presenta sempre più come una grande impresa, un grande amministratore del patrimonio pubblico, votato al solo intento di far quadrare i bilanci e rilanciare un'economia perennemente in crisi, magari anche privatizzando i servizi e affidandone la gestione pubblica a imprese private, che calcolano i propri profitti sui diritti dei loro utenti, noi.

Non è più nemmeno un conflitto di classe. C'è un dentro e c'è un fuori. Dentro e fuori un sistema di produttività, che è un sistema sociale, quasi religioso, che offre sacrifici agli altari del profitto e della competizione, lodando l'uomo solo, che si fa da sé. Gli altri, quelli che perdono il treno, quelli che non riescono a tenere il ritmo di questa nuova religione, cadono indietro. Nessuno si fermerà a raccattarli per strada. La solidarietà è un lusso. Correre una necessità prima che un piacere.

Fermarsi è troppo rischioso.

[ Tratto da "Roma senza fissa dimora", 26 dicembre 2004]

Leggi "Roma città vista di spalle"

No comments: