Mi porti un bacione a Firenze

Piove. Grigio il cielo, le nubi traboccano, i tetti si lavano, i muri si sciacquano, lungo le strade si inseguono rivoli d'acqua bagnata. Il Tevere intanto, tutto impettito si gonfia. Passo tutto il giorno in stazione, non ho l'ombrello, non ho un cambio asciutto, non posso bagnarmi.

Il pomeriggio passa veloce, dondolato sulle chiacchiere con Gigi e un suo amico, Carmelo, sulla vita di strada e sulle continue lotte per il territorio. La sera, dopo cena, arriva al primo binario Giancarlo, felice di ospitare un pellegrino, che sarei io, e di ascoltare notizie dal mondo dei viventi.

Giancarlo è fiorentino, sulla cinquantina, occhi marroni piccoli e intelligenti, capelli grigi, stempiato, col pizzetto sempre ben curato, ci tiene a mettersi in mostra e a destar l'interesse di chi lo ascolta incantandolo con discorsi raffinati e gustosi, come i migliori vini rossi del suo amato Chianti. Ha tanta esperienza del mondo, ha studiato e viaggiato in lungo e in largo per lavoro. Porta con sé anche un grande dolore e una grande rabbia, cui dà adito ogni volta che subisce un torto anche piccolo piccolo. É una sorta di reazione, di chi ha subito abbastanza e non ci sta più.

Giancarlo ha con sé un bagaglio con una certa cultura. Nato e cresciuto a Firenze, una laurea in economia, un master in management a New York, tredici anni di lavoro alla Benetton, in giro tra il mondo e gli affari. Il matrimonio, la bella vita, l'agio del lusso. Poi la malattia della moglie, la trafila nelle migliori cliniche private degli States, in cerca di una cura impossibile. Fili di speranza spezzarsi uno dopo l'altro, come capelli finissimi. Poi la morte, il lutto, la caduta, il fallimento, primo, vero, irrimediabile. L'inesorabile erosione del resto, la strada.

Giancarlo è un uomo orgoglioso. Testardo, sprezzante, rigoroso, preciso. Sa essere generoso fino alla vita e scaltro alla morte, tenero e cinico, passionale e indifferente. Giancarlo ha un animo attento e fine, più di quanto non voglia lasciare trasparire ai suoi compagni di strada, intento com'è a recitare la parte del duro. Così capisce bene la mia discesa sulla strada, ai margini della società, e anzi cerca di aiutarmi nei nostri incontri, consegnandomi le parole giuste per narrare la strada e le sue contraddizioni.

Discutiamo di come la società esclusa, marginale riproduca fedelmente la società normale (o normata?) e non ne sia tanto lontana. La sola differenza sta forse nel fatto che sulla strada tutto è esasperato, ovvero tutto è permesso. Tutto è più duro. Tuttavia le dinamiche sociali sono pressappoco le stesse. Quelle cioè di un gruppo in cui gli individui sono in lotta l'uno con l'altro, salvo temporanee e opportunistiche alleanze, pronti a tradirsi, a dimenticarsi e a farsi male. Sulla strada si combatte per il peggiore degli ideali, lo si fa per la miseria. E la miseria è una terribile bestia. Perché sei pronto a tutto, perché lotti per sopravvivere e non per stare meglio, perché tanto non hai più nulla da perdere, nemmeno la vita se vuoi.

L'anno scorso alla stazione Termini in strada era molto più dura, ora l'hanno ripulita a forza di retate della polizia. Qui l'anno scorso dormivano molti usciti da poco dal carcere. Gente condannata per omicidio magari a trent'anni. Si trovavano in mezzo a una strada a cinquanta, dopo aver passato più tempo in galera che all'aria aperta, magari con altri processi pendenti, per i quali sapevano già che li attendeva una pena dura abbastanza da passare il resto dei giorni dietro le sbarre.

"Bah, un omo hosì - mi dice Giancarlo - è n'omo he non ha mai vissutho né mai ha mai imparatho a fallo, uno he oltre a esse senza un passatho è pure senza un futhuro. Un omo hosì - conclude - è i'ppiù periholoso dell'omini, perché non ha più niente da perdere, ha già perso tutto. E' capace di uccide a coltellathe un amiho pe' un battibecco o una hrisi di nervi. La vitha non ha lo stesso valore pe tutti. Eh dipende da in dove guardi i'mmondo e da he punto guardi la tua di vitha, da i'vvalore he le dai".

Ci troviamo d'accordo sulla peculiarità di ogni storia, di ogni persona, della sua biografia. Per il toscano la sociologia può sì azzardare studi e previsioni su gruppi sociali con un certo grado di scientificità, ma in nessun caso sul singolo individuo, la cui persona è un tutt'uno con i processi del suo divenire.

A Giancarlo piace salire in cattedra e ridendo mi cita un esempio per meglio capire. Guarda Carmelo, che dalla mattina non si è mosso dalle sue coperte seduto come una sedia pieghevole nello spazio tra due colonne lungo il primo binario. Lo addita. "Stronzo! Stronzo! - ripete - oh un lo vedi!? E ha lasciatho he altri gli rovinassero la vitah e s'è trovatho n mezzo a una strada senza nemmeno prova' a fare qualcosa. E il fatto he rimandi ogni giorno una svolta, limithandosi a mangiare e a dormire sotto a un portiho della stazione, lo rende uno stronzo elevatho a i'qquadratho", insiste Giancarlo.

Carmelo è milanese, di famiglia palermitana, la poliomielite da bambino lo ha reso zoppo, e un brutto giro di spaccio a Milano gli ha dato la spinta finale sul marciapiede. Alle provocazioni dell'amico toscano risponde con un sorriso bonario, sospirando senza scomporsi. Ormai si sta lasciando andare del tutto. Passa giornate intere arrotolato in una coperta marrone e mangia a intervalli regolari. É indifferente, è fermo, è come morto.
"Phiutthostho - conclude seccato, Giancarlo - meglio buttarsi sotto a un treno anzihé lasciarsi imbrutire in codestha maniera, almeno tu scegli i'cche fare della tu vita, e insennò tu vivi per mangiare e dormire, come s'avessi perso i'ccontrollo della nave, è un tu sei più i'ccapithano, o forse un tu lo sei nemmen mai stato. Ma allora, sta a sentì, a icché thi serve i'ttimone eh?"

[ Tratto da "Roma senza fissa dimora", 27 dicembre 2004]

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