I botti

Dopo il panettone e il caffé, usciamo dalla chiesa di Santa Maria in Trastevere sull'omonima piazza, dove, ahimé, ci fermiamo un po'. Roisin è andata in bagno, io e Attila la stiamo aspettando con Angy, la cagnetta, siamo vicino alla fontana e parliamo. A un certo punto dei signori che erano al pranzo con noi, a pochi metri di distanza tirano un petardo. Angy inizia a tremare, piange, ha paura dei botti, vuole scappare. Attila è nervoso la tiene stretta al guinzaglio, la carezza mentre le sussurra qualcosa. Intanto gli altri accendono un secondo petardo che cade a poca distanza da noi. Bum. Angy non si tiene più, piange, trema come una fogliolina al vento, un continuo lamento. Rimango senza parole.

Non avrei mai pensato che Attila fosse tanto irascibile. In una frazione di secondo molla il cane ed esplode in un urlo di rabbia, si scaglia contro i tre artificieri e, in inglese, si mette a dire loro se gli pare questo il modo di festeggiare il Natale, tirare petardi in mezzo alla gente, è questo il loro Natale? Guardate il mio cane! Guardate! L'avesse mai fatto…

Il seguito è stato un po' come il gioco del domino, in cui una tessera tira giù l'altra finché non finiscono le tessere. Uno dei tre, sulla cinquantina, ex-galeotto, gli va contro chiedendogli chi mai si crede di essere. Attila lo minaccia di chiamare la polizia. Quella stessa parola, polizia, fa esplodere un cocktail di ricordi e paure. Il tipo non ci vede più e con la rabbia negli occhi cerca di scontrarsi con Attila. Alcuni lo tengono stretto. Roisin è arrivata, non ho il tempo di spiegarle, ma riesco a convincere Attila di lasciar correre e tornarcene a casa, non cerchiamo noie quando non ce n'è bisogno. Partiamo.

Attila è nervoso, Roisin delusa. Pare che non sia la prima volta che Attila si caccia nei guai per delle sue reazioni esagerate, per quanto basate su comprensibili motivi. Lui non le risponde, ma sbuffa, guarda dritto avanti a sé e si mastica i denti. A un tratto esplode di nuovo, io li seguo da dietro. Butta per terra la chitarra, lascia cadere il suo zaino e parte di corsa, dove, nemmeno lui lo sa. Forse ha solo voglia di sfogarsi. Rimango con lei, è un po' triste, stanca. Inizia a parlarmi del carattere del suo compagno, così istintivo e totale nel bene e nel male. Continuiamo a camminare, senza sapere bene nemmeno noi cosa fare, visto che Attila non accenna a tornare, senonché…

Sento crescere un certo vocio alle mie spalle, mi giro e vedo un gruppetto di sette avanzare verso di noi. In mezzo a loro riconosco il tipo che accendeva i petardi e che si è scontrato con Attila. Lo squadrone dei codardi cerca il compagno di Roisin per dargli una lezione sul rispetto dei ranghi. In strada non si scherza, e chi scherza paga. Tuttavia il leader del gruppo è un altro, è un ragazzo sulla trentina, alto un metro e sessanta, rasato. Si capisce da come cammina, un metro avanti a tutti, con passi veloci, che ha preso l'accaduto come un conto da regolare personalmente con gli interessati. Mi è davanti. A pochi centimetri dalla mia fronte alza la voce. Chiede dov'è il mio amico. Cerca già lo scontro. Faccio due conti. Io contro sette, il rischio che facciano del male anche a Roisin. Cerco di mediare. Con i toni più diplomatici possibili rispondo che non ne ho la più pallida idea, se ne è andato e ci ha piantato lì, come posso sapere dov'è andato. Menti, è un tuo amico, devi saperlo, lo stai coprendo. Bello non scherzare con noi. Non prenderci in giro. Dov'è tu lo sai! Ripeto che no, non lo so. E allontano il tipo da me, mettendogli le mani sulle spalle, faccio due passi in avanti. Toglimi le mani di dosso e non mi toccare. Lo lascio e gli dico che io non gli ho messo le mani addosso e che non voglio certo avere problemi, lo vadano a cercare il mio amico. Ormai la miccia si è accesa. Tu non mi metti le mani addosso capito. Torna alla carica. Bum. Una testata sul naso. La scanso di poco. Bum. Un'altra. Sento scorrere il sangue, caldo, porto una mano al viso, si riempie di rosso. Eh no! Lasciatemi stare, che c'entro io. Eh!? Avanzo verso il mio avversario. Ti ho detto che non so dov'è. Stavolta se ne vanno, come cani randagi. Mentre si allontana il tipo si gira e mi punta un indice contro, come dire, ricorda la lezione. Mi giro scuotendo la testa, Roisin piange, mi chiede scusa. Si sente in colpa per ciò che è successo. Io che cerco di tranquillizzarla e le dico che il mio naso è di legno e prima di rompersi ce ne vuole, non è niente. Sono dei vigliacchi, vengono in sette per regolare i conti di uno. Mi asciugo con un fazzoletto di pezza. Mi guardo allo specchietto di un motorino, il taglio non è profondo, all'altezza della fronte. Fortunatamente ho piegato la testa contro la sua, altrimenti mi avrebbe rotto il naso.

Dovrei essere arrabbiato, ma mi viene da ridere. Avverto la pochezza e la limitatezza di uomini che credono ai pugni e misurano l'onore e il rispetto sulla base dei toni di voce in mezzo alla piazza. La botta sul naso non mi dà alcun pensiero, poi passa, l'idiozia, al contrario, è più lenta a passare di qualsiasi frattura del setto nasale.

Roisin è ancora scossa, insieme decidiamo di tornare a casa, ognuno sulla sua strada, ci avviamo verso Argentina. Attila conosce la città, prima o poi tornerà, speriamo solo che non lo trovino. Ci avviamo su viale Trastevere. Dopo pochi minuti lo vediamo arrivare, bello come il sole. Roisin lo trapassa con uno sguardo inferocito, lui non capisce, mi vede e gli cade la bocca. Che è successo? Sembra piovuto dal cielo. Gli spiego l'accaduto, gli dico che lo stanno cercando e che io non ho assolutamente voglia di trovarmi in una rissa di strada contro sette persone, magari armate di coltelli. Quindi torniamocene a casa, o meglio torniamo per strada perché una casa non ce l'abbiamo, ma da un'altra parte della città.

Fa cenno di sì con la testa, si morde le labbra. Mi dà retta forse solo perché si sente in colpa. Comunque ci incamminiamo. Arrivati in Piazza Navona ci mettiamo a sedere. Continua a piovigginare, non c'è molta gente in giro, bancarelle vendono dolci, cartoline e foto ricordo di Roma. Li lascio da soli, meglio che si chiariscano. Non so dove andare per medicarmi e soprattutto non ho niente per farlo, di andare al pronto soccorso per un cerotto non se ne parla. Dietro la piazza trovo un bagno pubblico, ne approfitto per lavarmi un po' il viso. Risalgo le scale, ancora tengo poggiato un fazzolettino di carta sul taglio per tamponare il sangue. Riconosco la zona. Due anni fa ho passato tre notti in un ostello delle suore mantellate, non lontano da qui. Provo a ritrovare il posto. Risalgo Corso Rinascimento tra la pioggia che inizia a farsi sentire, trovo il cortile che avevo fotografato allora, salgo le scale e mi presento. La signorina al banco non è affatto tranquilla quando vede presentarsi un tipo mal vestito, la barba lunga e un fazzoletto macchiato di sangue sul naso. Cerco di tranquillizzarla e con toni pacati le racconto. Dico due anni fa ho dormito qui un paio di notti. Ero con mia sorella Elena, venuti a Roma per una vacanza diversa, con Sant'Egidio, a festeggiare il Natale con i poveri di Roma, dando una mano all'organizzazione dell'evento e insieme dando un occhio, curiosi, a una città nascosta. Comunque ora mi ritrovo a Roma, sono caduto e non ho la più pallida idea di dove trovare del disinfettante e un cerotto. Poi, questo non glielo dico però, non ho nemmeno una lira con me, quindi se anche trovassi una farmacia ci farei ben poco. La ragazza inizia a riprendere un buon colorito, mi dà un'altra occhiata, un lungo respiro, stringe le labbra e mi dice: aspetta. Scompare dietro il bancone e dopo poco la vedo tornare con in mano una boccia di disinfettante e un cerotto da garze. Dice di non avere cotone né cerottini, solo il disinfettante ed un nastro adesivo per fissare un eventuale garza o simile. La ringrazio. Mi indica uno specchio, in uno stanzino a lato, semibuio. Lavo la ferita e ci incollo il cerotto sistemando sul taglio un pezzetto di tovagliolino di carta. Saluto e me ne vado, sbattendomi dietro la porta a vetri, distratto. Appena esco all'aria aperta sento la pesantezza della stanchezza, di corpo e di mente, sarà la botta alla testa, chissà. Sbuffando un poco ritorno alla panchina dove gli altri mi aspettano. Li trovo girati in direzioni opposte, le braccia incrociate, i volti tirati. Quando mi vedono cercano di ricomporsi, capisco. Beh, dico, forse è il caso che ci salutiamo, siamo tutti molto stanchi, così li accompagno verso Villa Borghese, dove prendono il bus.

[ Tratto da "Roma senza fissa dimora", 25 dicembre 2004]

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