Ritirata sull'Aventino

Timoroso di uscire dal sacco e da quel suo caro tepore, mi affaccio quel tanto che basta per avvertire il freddo tagliente che spezza l'aria e lungo l'asfalto grigio graffia pozzanghere sporche di vetro. Ghiaccio. Mi alzo.

Vado a farmi una doccia a San Giovanni, viale Castrense cinquanta. Troppo tardi. Arrivo che sono già stati distribuiti tutti i numeri disponibili per la mattinata ai molti presenti, da ore in fila a prenotarsi per un po' d'acqua. Ne approfitto per una rapida visita a San Giovanni in Laterano, dopodichè mi incammino alla volta dell'Aventino, Parrocchia di Sant'Alessio a mangiare un boccone per pranzo, da ieri ho infatti finito i buoni mensa della Caritas. Colletto bianco, alto, stempiato, secco, ma con un bel panciotto, il parroco vestito di grigio trepida sin dal mattino, appena alzato, fino alle undici e trenta, in attesa del quotidiano rito del pranzo donato. Puntuale come il più svizzero degli orologi, inizia a distribuirci numerini stampati su tessere marroni di legno. Siamo una trentina. Si raccomanda di allontanarsi per non disturbar l'accesso dei turisti alla cappella. Scoccato il mezzogiorno ci dispone in fila indiana, secondo l'ordine del numerino della tessera che prima ci ha dato, sistema due volte la fila, ci tiene che sia ben diritta. Poi, con l'aiuto di un'aitante perpetua serve a ciascuno un piatto di spaghetti al pomodoro dall'incerto sapore, di sale assai sciapo. A mangiare si va nel parchetto adiacente, un bel giardino di aranci con vista su Trastevere.

Lì incontro Jaque. In Italia dal l'ottantaquattro, congolese, di Kinshasa, da due anni ha perso il permesso di soggiorno e da allora vive nella clandestinità, tra Roma e Torino, sua città adottiva, con alle spalle il lavoro da metalmeccanico, e di fronte la voglia di ricominciare e gli ostacoli della legge sull'immigrazione che di fatto gli impedisce di regolarizzarsi anche qualora trovasse un lavoro. Laureato in ingegneria alla Sapienza, ci ritroviamo ben presto a parlare di sviluppo, politica, migrazioni, integrazione e della stazione Ostiense, sotto i cui portici da mesi va a dormire ogni notte. Insieme poi scendiamo lì vicino dalle monache carmelitane, che alle due offrono un piatto di pasta, del brodo e un panino a chi bussa alla porta.

Una ressa di persone, donne e uomini, ammucchiati sotto al portone verde, spingono l'uno sull'altro, la paura di star senza, la rivalsa di far prima, la furberia di far due volte il giro. Scene simili c'erano stamani in viale Castrense. Uomini e donne darsi spintoni su tappeti di stracci rovesciati per terra da un qualche cassonetto e avidamente combattuti. La contesa per l'avanzo degli scarti. Nella miseria l'uomo si sporca, si piega alla logica del sopravvento del più forte, del più furbo, del più subdolo. Nella miseria il quadro delle cose è molto semplificato, quando si tratta di sopravvivere si rinuncia volentieri alla complessità e alla galanteria, ai favori e all'amicizia. L'altro è uno spietato concorrente, le risorse sono poche ed ha la meglio chi è più scaltro, non ci sono regole, o ti sottometti al più forte o lo sfidi apertamente.

Nel pomeriggio finalmente riesco a fare la doccia. In giro ci sono molte signore sulla quarantina, arrivate dall'Est Europa, rimaste per strada magari dopo aver perso il lavoro di assistenza che facevano presso alcune famiglie romane. Ma sono molti di più gli uomini e i ragazzi che arrivano da paesi come la Romania, la Polonia, la Moldavia, l'Ucraina e la Russia. Il viaggio non è rischioso, in alcuni casi è addirittura routine, come dalla Romania con cui l'Italia ha abolito il visto d'ingresso dal 2002.

E dalla Romania proviene Laurentio. Lo incontro la sera, di ritorno a Termini, nel sottopassaggio, di fronte alle vetrine. Laurentio ha trent'anni. Ha bevuto quanto basta per essere allegro, vuole insegnarmi il rumeno. Chefach? Bine! Da lì iniziamo a parlare con lui e con altri suoi amici, delle condizioni di vita dei rumeni in Italia e in Romania. Della povertà che hanno a casa e della discriminazione generica che subiscono una volta arrivati in Italia. Uno di loro è senza permesso di soggiorno. Tre settimane che lavora, in nero, fa il manovale. Il suo padrone l'ha cacciato dal cantiere senza pagarlo, la polizia ha sigillato le porte della casa occupata dove alloggiava con altri quattro ragazzi rumeni. Da stasera è per strada, è Natale. La famiglia lontana gli ha affidato il carico delle proprie speranze, crede in lui, ma non sa che lui oggi è sbattuto fuori e presto cancellato dal nostro paese.

Accanto alle sue le parole di un giovane ghanese, anch'egli da tempo nel circolo dell'esclusione e della miseria, veste elegante, giacca e cravatta ritirata a chissà quale centro di ascolto, e gira con una ventiquattr'ore per non dare nell'occhio.

[ Tratto da "Roma senza fissa dimora", 23 dicembre 2004]

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