
Rispondo sommesso di non preoccuparsi, che se è tardi vorrà dire che mangerò domani, non è un problema, loro sanno gli orari. Dice di aspettare, magari mi porta qualcosa. Dopo due minuti si presenta dicendomi di entrare e sedermi al tavolo, poi mi serve un vassoio, primo, secondo e contorno, gelato. Sono seduto con un giovane ospite del dormitorio adiacente e con un operatore della mensa. Ha la mia età, capelli rasati, un piercing al mento, studia italianistica alla Sapienza. Con loro parliamo di questo mio viaggio e della strada, con il suo pullulare di vite e di gambe che la consumano come moscerini sulle vinacce. Finita la cena esco e torno verso la stazione. Cammino sotto i lampioni, attento a scansare le pozzanghere, sfilano come frecce le macchine a fianco. Mi fermo all'altezza delle poste, dove ho dormito le scorse notti, per fare gli auguri agli altri ed offrire loro alcuni gelati che ho preso alla mensa. Mi metto a sedere e iniziamo a parlare.
Sarkawi viene dal Marocco e Sami dalla Libia. Inseparabili, all'avventura. Bulli, scaltri, ma in fondo docili dopo poche parole. Insieme a noi il gruppo degli africani, liberiani e ivoriani. Tutti clandestini, reduci di ormai lontani sbarchi a Lampedusa. Anche loro parlano arabo, avendo tutti vissuto in Libia per un certo periodo. La Libia costituisce infatti una tappa forzata per chi lascia l'Africa nera via terra, dopo la lunga traversata del deserto. E in Libia lavorano magari diversi anni per guadagnare i soldi necessari al biglietto di un viaggio fantasma verso le coste della speranza, di un futuro migliore. Eccolo il futuro migliore, eccola la speranza: la strada. Ecco la fine di tanti corpi naufragati in un mare di cemento come sporcizia dei nostri tempi, privati di qualsiasi stato di diritto, perché privi di una carta. Immersi dentro la miseria ed ogni giorno combattuti tra la legalità e la delinquenza, ogni tanto uno strappo alle regole. E piano piano lo strappo diventa la regola, e si inaridisce il cuore, di quello sporco cinismo che cancella rimorsi e coscienza, in una lotta per la sopravvivenza prima, per la supremazia poi. Poveri ladri. Casi sociali a riempire le nostre prigioni.
Verso le dieci arrivano, puntuali ed attesi, i ragazzi e le ragazze della Comunità di Sant'Egidio a portar da mangiare, da bere ed un po' d'allegria. Insieme ai panini riescono a portare un bel clima, da quel momento tutto è contaminato di positività. Siamo un pugno di sconosciuti che ha voglia per una sera di girare lo sguardo da un'altra parte, di scaricarsi la pancia dai malumori, di convertire la rabbia e la noia, la solitudine e il silenzio in canti, balli e danze di gioia, per quanto effimera o passeggera essa sia. L'avere ospiti, il ricevere doni e sorrisi, per quanto banali e leggeri, ingenera un clima di festa che presto si fa collettivo. Un ragazzo liberiano, bevuto come una spugna, scalzo e con indosso una sola camicia, rossa, e un berretto verde a quadretti, si mette a cantare e ballare, lungo le scale che dalle Poste danno sulla strada, tutta una serie di canzoni liberiane. Lo fa nella sua lingua, sono canzoni d'amore, sono canzoni di lotta. La nostalgia corre in un brivido lungo la pelle degli altri che presto si alzano e si uniscono a lui, gli occhi gonfi di gioia. Uno spettacolo improvvisato di danze tribali, canzoni reggae ed hip hop, al ritmo di un battito di mani, sotto la pioggerella di questa notte grigia di nuvole. Sfidano il cielo e i passanti, cantano la propria dignità, gridandola, ubriachi. Voglia di esser felici e senza pensieri,anche se solo un momento. Ubriachi. Si infilano giacca e scarponi e partono alla conquista di questa notte nelle vie della città rimbalzando sui piedi al ritmo dei passi di corpi che danzano imitando la vita.
Al mattino, quando apro gli occhi, li vedo pesanti sul loro cartone dormire, russare.
Sorrido mentre mi alzo e arrotolo il sacco, penso alla bella atmosfera stanotte. Oggi, secondo il calendario cristiano romano è Natale. Fuori il cielo è grigio e pioviggina. Rari sfilano alcuni autobus, pochi i viaggiatori di scalo a Termini. Macchine, quasi nessuna. La città sembra dormire, sembra respirare un momento sulle note di una lenta canzone. Esco. Ho indovinato alla fine che sono gabbiani quelli scolpiti in bassorilievi stilizzati lungo tutto il frontone di pietra della stazione, sul piazzale dei bus.
[ Tratto da "Roma senza fissa dimora", 25 dicembre 2004]
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