Da viaggiatore

È dai tempi dell’università che mi interrogo sulle città nascoste. Allora vivevo a Bologna e per pagarmi gli studi, nel 2002, finii un po’ per caso a lavorare come operatore sociale in un dormitorio che ogni notte dava ospitalità a una trentina di uomini e donne finiti per strada. In via Lombardia. Ricordo le luci blu al neon che durante la notte restavano accese sullo stretto corridoio su cui si affacciavano le porte delle camerate e le grate di ferro delle finestre.

Trascorrevo spesso notti insonni a scrivere. Oppure ad ascoltare musica. Insieme a Gabriele, uno degli ospiti, un quarantenne con un passato da eroinomane, neo adepto dei testimoni di Geova e grande conoscitore della musica degli anni Settanta e Ottanta. Aveva venduto la sua collezione di dischi per comprarsi la roba, dopo che suo padre lo aveva cacciato di casa per l'ennesima aggressione. Prima però li aveva copiati su cassetta. Quella valigia di musica era il suo tesoro. La teneva chiusa a chiave nell'armadietto. Di notte, quando ero in turno, veniva a farmi visita. Soffriva di insonnia. Arrivava con i suoi pigiami ascellari, portando ogni volta tre o quattro cassette diverse, che commentava a voce alta, tra una sigaretta e l'altra, con quella bocca sdentata. Fu lui a farmi conoscere, tra gli altri, Giorgio Gaber.

Quando me ne andai, due anni dopo, era ancora ricoverato in ospedale, al Maggiore, per un'intossicazione farmacologica. Aveva deciso di farla finita. Si era convinto di essere indemoniato, perché impuro, perché ossessionato dalla sua estrema solitudine sessuale, che nemmeno l'amore a pagamento riusciva più a scalfire. E per questo aveva ingerito in un'unica botta tutti gli psicofarmaci che i medici della casa di cura gli avevano prescritto contro la depressione.

Da Bologna me ne andai con un carico di ricordi. I buchi fuorivena di Franco e i racconti delle sue rapine a mano armata tra Milano e Bologna. La gobba di Carmelo che a Napoli portava le paranze della “Maronna” in processione e che era completamente analfabeta. I racconti delle telefonate di Massimo che per campare aveva trovato un lavoro part-time in una linea erotica. Lo scherzo di Pietro, che si staccava le protesi che aveva al posto delle dita ogni volta che stringeva la mano ai nuovi arrivati.

E le sceneggiate di Chiara, che ogni sera guardava attentamente il telegiornale per scoprire quali fossero i sette uomini che potevano liberarla dalle sette donne che le entravano nel cervello durante gli attacchi di cefalea a grappolo. Fino ad allora ne aveva scoperto solo uno. Un certo Adolf Hitler. Ma non ne era del tutto sicura. Motivo per cui passava intere giornate nelle biblioteche comunali a ricopiare su un taccuino il dizionario di tedesco.

E poi le rare lacrime di Angela, sprofondata nella depressione con tutti i suoi cento chili. E i pugni facili di Mario, che ogni volta che esagerava con l’alcol diventava talmente molesto che spesso la lasciavamo a dormire fuori sulla panchina.

Verso quel misto di violenza e tenerezza, di lacrime e coltelli, io mi sentivo debitore. Perché per due anni avevo potuto osservare una città, Bologna, dall’interno della sua periferia più nascosta. Adesso volevo fare lo stesso con Roma, ma senza filtri. Non da operatore sociale. Da viaggiatore.

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