Fondo Magazine. Susanna Dolci intervista Gabriele Del Grande

tratto da Fondo Magazine

‘Antefatto Da viaggiatore’. Viaggiatore, appunto, studente universitario ed operatore sociale in un dormitorio bolognese. Che succede ad un certo punto? Cosa ti accade e ti porta alla Capitale e poi a questo libro? Perché la Stazione Termini, la grande balena? E perché non un’altra città?


In realtà avviene tutto senza un motivo apparente. Scelsi di trasferirmi a Roma perché mi attirava la città. E decisi di cominciare a conoscere la città dai suoi scantinati sociali. Dalla sua periferia estrema, che poi era anche il suo centro. La stazione centrale dei treni. Gli ingredienti furono la curiosità antropologica, la necessità di restituire un racconto di una realtà sconosciuta ai più e sulla quale mi ero potuto affacciare proprio grazie al lavoro di operatore sociale. E poi quel pizzico di pazzia che hai solo a quella età.


Capitolo ‘La prima notte’. “Qua mica se po’ dormì!”. Poi il tuo zaino, i tuoi esseri trasparenti agli sguardi dei viaggiatori di passaggio in una stazione. Fors’anche nella città stessa. Come considera un senzatetto il concetto di spazio o di città come agglomerato urbano? Ed ancora o meglio poi, come si snoda il filo di “un viaggio alla ricerca delle pagine private di chi sulla naufragato… nella Roma sotterranea”? Il biglietto è per un itinerario all’inferno sola andata od anche ritorno?

Non sono un sociologo né un antropologo per dire come un senza tetto vive la città. Ma forse posso dire che il senzatetto non esiste. Non esiste come categoria umana. E questo é il senso del cercare le ”pagine private di chi sulla strada è naufragato”. Mi sono limitato a incontrare delle storie e a restituirle con degli affreschi. Inevitabilmente veloci, quasi degli schizzi, nati da incontri fugaci, ma che vogliono restituire proprio una narrazione, e quindi una soggettività ai personaggi, soggettività che avvicina. E che ci fa scoprire da un lato come l’inferno sia in mezzo a noi. Sulle stesse strade che calpestiamo ogni giorno. E allo stesso tempo che quell’inferno é costellato di tante isole di paradiso. Ovvero l’umanità nascosta e negata da ogni nostro concittadino finito in mezzo alla strada nell’indifferenza generale.


Capitolo ‘La solitudine’ ovvero “l’estrema solitudine” degli emarginati. Quanto pesa? Quanto fa vivere o uccidere?

La solitudine pesa su tutta la città. Di nuovo, la strada diventa uno specchio fedele dei mali della società. Dove pero’ tutto è esasperato. Siamo tutti sempre più soli. E la strada è spesso il risultato di quella solitudine, che nel momento del disagio ha fatto terra bruciata intorno alle persone e le ha lasciate precipitare. La famiglia, gli amici, i figli, o i padri. E se già nella normalità la solidarietà è spesso un lusso che in pochi si possono permettere, sulla strada diventa ancora peggio. Ed è quella estrema solitudine – di amici veri, di affetto, di focolare – che acutizza il disagio, e impedisce di ritrovare le forze per rinarrarsi e ripartire da zero, perennemente stretti nella morsa della precarietà.


Capitolo ‘Una doccia fredda’. “La mia è soltanto una recita”, tu scrivi. Dunque e perdona il termine crudo, barboni si nasce, si diventa, si resta o si ritorna ad esserlo?

Barboni si diventa. Nessuno nasce in strada in Italia. E lo può diventare chiunque di noi. Ho incontrato giovani di quartieri difficili, disabili, pensionati, ex manager di importanti aziende italiane, laureati, analfabeti. Le nostre vite sono sempre più precarie. E può capitare a tutti. Soprattutto laddove il legame sociale e familiare è più debole e dove non ci sono paracaduti di solidarietà. La mia è stata una “recita” nella misura in cui era un viaggio attraverso gli strati sociali di una città per raccontarne i retroscena. Ma senza pensare di immedesimarmi in una condizione che non mi appartiene. Soltanto per raggiungere un luogo e per raccontarlo.

Nel capitolo ‘Milano-Parigi prima classe’ scrivi: “mi metto a rovistare tra i cartoni vuoti”. Come sono le azioni, i gesti degli esclusi dalle luci della città? Com’è il loro tempo? Come si muovono le lancette del loro metaforico od immaginario orologio che poi è di siffatta piena realtà?

E’ tutto molto essenziale. Si mangia, si dorme, e si parla. E’ tutto anche molto noioso da un lato. Non c’è niente di entusiasmante sulla strada. Le condizioni sono molto difficili. A volte di sopravvivenza. C’è anche molta violenza, a volte davvero per delle futilità. E molta instabilità, specie tra chi beve e fa uso di droghe legali o illegali. Tuttavia quella violenza, quelle difficoltà rendono la strada una “maestra de vita” come la chiamava Gigi, il romano.

Capitolo ‘In vino veritas’. ”Seduto ai bordi di un binario guardo la gente passare”. Italiani, migranti, barboni, reietti, diversi, stranieri, pazzi. Quale il tipo di considerazione e rapporto con gli esseri della quotidianità?

No, ”guardo la gente passare” intendo dire le folle anonime che attraversano uno spazio privato della sua socialità come una grande stazione dei treni. Migliaia di persone invisibili una all’altra. Mi riferisco alla gente comune. Ai pendolari. Per me che vivevo in strada i barboni erano quelli che conoscevo e riconoscevo. Loro avevano un nome. Erano le isole dove fermarsi per due parole in mezzo a quell’anonimo fiume di gente rappresentato dai pendolari e dai tanti cittadini di transito. Una volta che cambi prospettiva, non si pone più il problema della norma o della normalità. Entri in una logica personale, narrativa, per cui ognuno ha un nome, prima che un’identità. Le identità servono a definire. I nomi a conoscersi. E quindi a raccontarsi.

Nel capitolo ‘Ritirata sull’Aventino’ parli della “Guida di sopravvivenza” distribuita dalla Comunità di Sant’Egidio? Ce ne puoi parlare?

E’ un libretto che all’epoca la Comunità di sant’Egidio distribuiva nelle mense. C’è sopra una lista di tutte le mense, con indirizzi e orari, dei punti doccia, dei luoghi dove distribuiscono vestiti, degli sportelli legali, delle asl, degli ospedali, degli assistenti sociali, dei centri di salute mentale, dei gruppi contro l’alcol, le comunità terapeutiche. Insomma una specie di prontuario sociale. molto utile.

Alcuni capitoli ancora: ‘Come esuli pensieri’ e ’Le botte’. La vita dei reietti passa tra poesia, follia, violenza, droga, alcolismo… Cos’altro o cosa non altro?

Difficile rispondere. E’ come la vita di tutti. Lo hai detto: follia e poesia, lacrime e coltelli. Con la differenza che rispetto alla noia cotonata di certe vite borghesi, sulla strada è tutto più violento, più ruvido, più esasperato, nel bene e nel male.

‘Veglia di Natale’, ‘Un’abbuffata’, ’I botti’, ‘L’anno che verrà’. Questi sono capitoli dedicati alle feste. Momenti delicati. Come, in questo stare randagio, si vivono le ricorrenze ufficiali ed a carattere familiare?

Si vivono male. Si sta male. Perché è come se il proprio vivere fosse sanzionato da un imperativo collettivo di festeggiare. Mi spiego? Tutto fuori ti ricorda che è Natale, sei sommerso di retorica sul Natale, di pubblicità, di addobbi, ma tu il Natale non hai nessuno con cui festeggiarlo. E ogni sorriso dei passanti ti rimanda alla tua solitudine. No, il Natale e le feste comandate non sono bei momenti per chi sta in strada.

Capitolo ‘ La pecora nera’. Chi lo è e chi non lo è? A te la parola

Il punto non è tanto chi non lo è quanto chi non la mette all’indice. Siamo tutti bravi a accusare, a emanare sentenze e giudicare. e invece dovremmo ripartire dall’incontro. dall’ascolto. di cio’ che è vicino, che è nei nostri quartieri, nelle nostre strade. e da li’ ripensare nuove forme di solidarietà sociale, di legami sociali che fungano da paracadute a chi cade. perché la solidarietà non puo’ essere un lusso che solo in pochi possono permettersi. e perché potrebbe davvero accadere a ognuno di noi.

A conclusione ma forse doveva andare all’inizio: lo rifaresti? E soprattutto perché questo libro? Per far, forse, capire a chi è “normale” un’altra realtà da, l’altra non dimensione? Si potrà mai comprendere appieno tutto ciò ed accettare e migliorare questo status che non è nell’è?

Non soltanto lo rifarei. Lo rifaccio ogni giorno. Nel tentativo di raccontare delle storie. E attraverso le storie dipingere affreschi della storia che attraversiamo e definiamo. Non solo non ho avuto problemi – salvo una testata al naso che avrei potuto anche evitare – ma sono anche stato accolto e in qualche modo protetto sotto l’ala di quattro vecchi lupi di mare del primo binario della stazione Termini. Perché questo libro? Di nuovo per ascoltare la città. Da una prospettiva diversa. Che pero’ ci parla della città in sé, attraverso una sua estrema periferia. Talmente estrema che si trova al suo centro. Non si tratta tanto di comprendere. Quanto di ascoltare. E di tessere delle relazioni. Che non siano solo relazioni di aiuto. Ma opportunità di un rinnovato legame sociale nei nostri quartieri sempre più asettici e precari

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