Intervista a Gabriele Del Grande

di Luca Leone

©Infinito edizioni 2010 – Si consente l’uso libero di questo materiale citando chiaramente la fonte

Il viaggiatore Gabriele Del Grande – per intenderci, l’autore dell’ottimo Mamadou va a morire – torna in libreria con un nuovo lavoro. Ancora un viaggio, ma questa volta davvero dove non te lo aspetti: nelle viscere sociali della capitale, della Roma che esclude, in mezzo agli oltre 6.000 homeless che, nell’indifferenza generale, la vivono e la patiscono sulla loro pelle.
Del Grande ha vissuto venti giorni con loro, gli homeless, e tra loro, dividendo tutto: pezzi di strade per dormire, rare docce, il poco cibo, violenza, freddo, paura. Il risultato è Roma senza fissa dimora. Un viaggio nella città degli emarginati: un libro che tocca fino in fondo all’anima. E apre uno spaccato inedito e imprevedibile sulla città più bella del mondo e sui suoi limiti e drammi più profondi. Un reportage, semplicemente, da non perdere che, come spiega nella prefazione il giornalista Stefano Trasatti, secondo cui questo libro “restituisce identità, storie e corporeità a chi, pur non avendole perdute, è come se non le avesse più. Il libro di Del Grande dimostra che un giornalismo umano e del tutto privo di cinismo è possibile”.

D. Gabriele Del Grande, quale sentimento prevale quando si vive per strada, da homeless?

R. Bisognerebbe chiederlo a un homeless. Non a un giornalista. Solitudine, frustrazione, rabbia? E perché invece non anche amore, gratitudine? Di sicuro freddo, d’inverno. Davvero non credo ci sia una risposta. Dipende dalle persone e dalle situazioni, dalle storie. La strada è un luogo, non è una categoria sociale. Una periferia abitata da tante umanità. Il mio andare sulla strada è stato un viaggiare verso quell’umanità, per incontrarla e raccontarla. Io non sono mai stato un homeless, al massimo un houseless. Perché la differenza non la fa la mancanza del tetto, ma quella del focolare.

D. Quali sono i pericoli insiti in questa vita?

R. La strada non è un luogo facile da abitare. È violenta, come del resto lo è la città che esclude, quella che abitiamo noi, ma è una violenza più cruenta, più fisica. Rischi di essere accoltellato per un posto letto, di essere menato da un ubriacone o derubato da uno che si deve fare una dose. Eppure come la disperazione genera una sorta di lotta per la sopravvivenza, allo stesso modo genera anche una sua socialità, un rifiorire degli affetti. Io stesso ho fatto esperienza di entrambe. In venti giorni per strada mi sono preso una testata sul setto nasale e allo stesso tempo sono stato accolto come ospite da tre vecchi lupi di mare del primo binario della stazione Termini che a loro modo mi hanno protetto e guidato per tutto il mio viaggio.

D: Perché e come, improvvisamente, una persona – a volte una famiglia – si ritrova a vivere da “barbone”?

R: Improvvisamente mica tanto. La prima riflessione che viene da fare è legata alla solitudine. All’allentarsi delle reti di solidarietà familiari, amicali. La perdita del lavoro è l’ultimo problema. Il problema è quando non si ha più un luogo dove tornare, una porta a cui bussare. E questo è sempre più vero nelle nostre città, dove il caro affitti rende spesso la solidarietà un lusso. Al resto basta aggiungere un momento di debolezza, di depressione. Quanti cinquantenni separati sono a rischio? Poi c’è il capitolo più drammatico di chi soffre di dipendenza. Di nuovo per problemi nati a monte della strada. Dipendenze da alcol, da droghe legali o illegali, che prima o poi ti fanno fare tabula rasa dei legami sociali e ti ritrovi seduto sull’asfalto senza sapere bene come. Comunque sulla strada non ci nasce nessuno.

D: E tu? Perché?

R: Bé lo faccio di mestiere. Di viaggiare. Come diceva Calvino, se c’è un inferno è quello dei viventi, ed è quello che viviamo tutti i giorni. Sta a noi cercare tutto ciò che non è inferno e farlo durare il più a lungo. Ecco, per me l’umanità che ho trovato nell’inferno della strada è ciò che non è inferno, e l’unico mezzo che ho per farla durare è la parola scritta. Ero affascinato da quel mondo da quando, durante l’università, lavoravo come operatore sociale in un dormitorio di Bologna. Perché è guardando i margini che si scopre il centro. E attraversando l’altrove che si scopre il proprio dove. Ed è raccontando la città esclusa che magari si capisce qualcosa della città che esclude.

D: Oggi rifaresti una simile esperienza o credi sia stata l’avventatezza della gioventù ad averti spinto a fare una simile scelta, per quanto breve?

R: A giudicare dalle esperienze che continuo a cercarmi direi che non è un problema di età. Insisto sul punto. È stato un viaggio. Un raccontare la città dai suoi scantinati. E oggi come allora continuo a viaggiare. Anzi quello è stato uno dei miei primi viaggi col taccuino in tasca!

D: Vedi ancora i tuoi compagni d’avventura di cui parli nel libro o li hai persi di vista?

R: Purtroppo li ho persi tutti di vista. Anche perché da due anni non vivo più a Roma.

D: Nella postfazione del libro lo scrittore di strada Maksim Cristan scrive: “Gabri è diventato un barbone, anche se se l’è cercata. (…) Gabri è rimasto un barbone, perché è così che funziona e questo non glielo leva più nessuno…”. Che cosa c’è di vero?

R: Bisognerebbe chiederlo a Cristan… A parte l’arte di arrangiarsi, che però era precedente a questo viaggio… di sicuro mi è rimasto lo sguardo da barbone. Talvolta la lentezza. Ricordo ore intere passate su una panchina a guardare la gente passare. A osservare dei particolari. Oppure l’ascolto. La sera, dopo la cena alle diciotto alla mensa, rimanevamo fino all’una di notte a raccontare storie di vita. Ecco quell’ascoltare, quel guardare, quell’aspettare me li porto dietro anche nel lavoro che faccio oggi come giornalista.

D: Che cosa ha cambiato questa esperienza da barbone nella tua vita?

R: Non ha cambiato molto. Voglio dire non è stata una caduta sulla via di Damasco. Paradossalmente è stato un passaggio di continuità. E al tempo stesso una sperimentazione. Di come si potesse passare dal lavoro nel sociale, ovvero dalla mia formazione professionale come operatore sociale, a un lavoro narrativo che però partiva dal sociale, in quel caso dalla strada. Già lo avevamo sperimentato a Bologna con una mostra fotografica sulle vite di strada l’anno prima del mio viaggio. Poi decisi di partire con il sacco a pelo. Oggi continuo sulla stessa via. Incontrare l’altro, lontano o vicino che sia, e restituirgli la parola.

D: Prossimi progetti?

R: Sto lavorando a un libro molto impegnativo sul Mediterraneo. Che racconta la Storia (con la esse maiuscola) di questi ultimi anni attraverso un ricchissimo intreccio di storie. Storie di padri e di pescatori, di esuli e di sindacati, di gabbie e di cinema, di spionaggio e di telefonini, di contrabbandieri e di turisti, di arance e di pomodori, di mare e di deserto. In poche parole di una stessa generazione che abita le due rive e del mare che ci sta in mezzo.

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